giovedì 7 giugno 2012

Irene, Emma, Stefan...

Certo, verrebbe l’ingenua e candida voglia di cambiare titolo ad un libro, essendo in fondo le due opere del medesimo autore: Stefan Zweig, viennese, 1881-1942, intorno ai cui scritti il corteggiamento di Adelphi diviene sempre più serrato col tempo. Un libro di recente uscita, "Paura" (Adelphi, pp. 113, euro 10,00) è "tailor made" per il noto editore milanese che, su tanta Mitteleuropa e dintorni (ma, certo, non solo) ha costruito fama e rispettabilità. Racconto di media lunghezza, tutto intorno al tema girato e rigirato infinite volte, quello dell’adultera preoccupata che qualcosa possa tradirla all’interno di quella società altoborghese ove si è ritrovata per inconsapevole diritto ed ha di conseguenza sempre agito come un automa. Dov’anche il farsi l’amante, preferibilmente non rompiscatole, costituisce una sorta di rispetto dell’etichetta. Irene Wagner, la protagonista che, con spessa veletta nascondente, maschera l’identità ed affronta il mondo esterno uscita dall’antro dell’amante, dovendo incrociarsi il passo di lei con qualche portiera, magari qualcuno ch’ella conosce e potrebbe salutarla nonché porsi concatenate domande relative, è perfetta come figura, quivi frigidissima più di tant’altre, stampo di stampo di eroine in stile sachertorte alla Schnitzler, il quale, chissà mai perché, "fa" assai più Vienna dello Zweig. Ma sul punto controverso, quello delle dissomiglianze (nonché affinità), si tornerà. Restiamo al proposito iniziale, quello un po’ sadico di cambiare titolo al libro. Al posto di "Angst", paura (ma anche ansia, angoscia e dintorni), resa speditissima nella più che sciolta traduzione dell’esperta Ada Vigliani, fatta con i pennarelli acrilici (ma dove sono mai finiti i pastelli woolfiani di una Celenza?, non s’addicono alla viennesità?) si potrebbe sostituire il titolo che Zweig adoprò per un altro suo libro: "Brennendes Geheimnis", Bruciante segreto.


Pianista spiantato

Brucia, di certo, il peso che Irene deve portarsi dietro, da quando ha incontrato una ricattatrice, sotto casa dell’amante, un pianista che si sta facendo strada, "pur se in ambito ancora circoscritto", dunque disponendo – e questo certo non è un bene – di "finanze sregolate, di continuo oscillanti fra dissipazioni e ristrettezze", tutte cose che "irritavano in lei la sensibilità borghese". Poca cosa, tale irritazione, di fronte alla popolana oscena dall’alito fetido che le si para un bel dì quando Irene sta lasciando la casa di lui, nervosa, mentre "respingeva sbrigativa gli ultimi fuochi della sua passione". Popolana orrenda e dall’umile veste di lana che comincia a chiederle sempre di più, sempre più esosamente, fino a sfilarle – essendo penetrata in casa di lei – anche un anello la cui assenza certo il marito nota immediatamente. Ma siamo a questo punto quasi alle ultime battute, all’escalation dei ricatti, cui la povera distrutta Irene, sempre costretta a mentire, sempre obbligata a mostrare il volto lieto e sereno davanti a coniuge e bimbi inappuntabili allevati a "signorine", non trova di meglio che replicare: "L’ho mandato a pulire". Poco altro le rimane in testa, ormai: decisioni più drastiche sembrano invaderla, fino al finale a precipizio, "del quale, per una volta – come recita la quarta di copertina del volume – non sarà inopportuno dire che toglie il respiro". Dunque "Bruciante segreto", anzi no, scusate: "Paura" vera e propria, il che forse è anche peggio. In fondo, poi, il "Bruciante segreto" originale, quello del ‘14, combinava l’amorazzo in stile villeggiatura fin-dé-siecle con i turbamenti di un bambino, Edgar, che viene dato per fuggitivo ma poi ritrova la strada per casa, accolto in fine con letizia.


"Con misurato trionfo fu condotto nella stanza, ma come gli risultò strano non far caso a tutte le dure parole di rimprovero che gli venivano rivolte: nei loro occhi leggeva infatti la gioia e l’amore".


E poi il caldo letto, e il padre brontolone (cioè il coniuge tradito) ma bonario, e la madre del bimbo che supplica il figlio di non rivelare il suo peccaminoso flirt al padre. L’importante, per Zweig, è il nido d’amore protettivo, le bianche lenzuola, la casa arredata come classe comanda.


Un po’ di felicità

Tirata una linea di parallelismo, siamo anche alla fine felice della vicenda di Irene Wagner, la moglie del penalista ancora bello ma dal collo taurino e minaccioso, la quale – ed è il massimo che chiede – riesce a non abbandonare l’agio nel quale nuota come pesce in acquario. Eccola, l’Irene della "Paura", superati ostacoli e mali propositi ultimi (per una vicenda della quale ha mezza colpa), distesa sul finale


"con gli occhi chiusi, a godere in modo più profondo tutto quanto costituiva la sua vita e adesso anche la sua felicità. Dentro si sé provava un leggero dolore, ma era una sofferenza piena di promesse, ardente e dolce al tempo stesso, come le ferite che bruciano prima di cicatrizzarsi per sempre".


Il denaro e l’agio ritrovato (che nell’Edgar del "Bruciante Segreto" si traducono "solo" nelle gioie degli affetti e del perdono – di un bimbo pur si tratta) chiudono in un sospetto buonismo le trame di Zweig, quando lo stesso non si diverta, come in altre novelle, a mescolare l’amour fou con un esotismo che pur lo attrae (e anche assai di moda in quel periodo), risolto in una certa chiave espressionista (come nell’"Amok" del 1922). Ma in "Angst", risalente come prima stesura al 1913, a dominare è certo la silhouette di Irene, moglie e amante. Dei cui tratti nulla si sa. Oltre al fatto che in società appare bella o tale si sente:


"Perché ora, mettendo piede nella sala, sentiva dagli sguardi altrui che era bella, e il provare di nuovo tale sensazione dopo lunga astinenza accrebbe ancora più la sua bellezza".


Finalmente una donna alla Zweig-Schnitzler, una donna che però, fuori dal box del salotto di casa sua, è magari una sorta di "Cosa di carne" alla Rosso di San Secondo anche se aggiornata al jet-set viennese primo Novecento. Ecco Irene Wagner che, se depuaperata di quel nulla che per lei è tutto, si trascina "nella stanza vicina con passi da automa e la mente vuota". Vuole forse velare, Zweig, una denuncia d’una certa condizione femminile subordinata alla sovrastruttura imperante (cioè borghese) con questa sua creaturina dal peso piuma? Del resto "tutto nella vita le era infatti giunto in dono, e lei non aveva nemmeno cooperato a forgiare il proprio destino". Ma sì, è cosa di carne, paga dell’orto suo, oltretutto "d’animo un po’ freddo", che tiene all’amante pianista "come un terzo figlio o un’automobile": e qui siamo già alle automobili, permanendo ovviamente le carrozze, immancabile elemento multifunzionale dell’arredo urbano narratologico d’epoca (adatte per fughe, diorami notturni e per ammazzare la gente – come non ricordare il coniuge Curie ucciso da una vettura a cavalli in pieno giorno?). Chi si dimentica, del resto, della famosa vettura de "I morti tacciono" (1897) di Schintzler, padrone assoluto - alla pari di un Freud col quale ebbe qualche breve arzigogolato scambio epistolare di tono "scientifico" – dell’antropologia viennese in disfacimento, che il nostro osserva con occhio implacabile ove la consolazione finale è assente? Come scordare la carrozza che di sera si capovolge (anzi, si scontra "contro la cunetta") sbalzando fuori, nell’impazzimento centrifugo del triangolo proibito, Emma e Franz, quest’ultimo morto sul colpo, mentre lei – chissà se la disperazione di Emma è maggiore di quella di Irene Wagner – arranca a casa certo ricolma di "Angst" o, meglio ancora, di un "Bruciante segreto". Costretta, Emma, alla menzogna assoluta (come Irene) di fronte al marito, di fronte allo shock di una morte avvenuta solo pochi minuti prima. Ma se lo specchio rivela ad Emma un volto, il suo, "che sorride, crudele e con i tratti stravolti" (forse una quasi "Giuditta o Salomè" klimtiana, priva però d’oro bizantino e con un figlio assonnato da mettere a letto – i sempiterni bimbi che leggono e mangiano la minestra) ecco che un fondo, uno sgorgo di psyché (non affatto fuori luogo nello spazio e nel tempo d’allora, anzi, ansiosa d’esplodere) le fa confessare la verità che indomata risale. In fondo i morti tacciono. Il suo Franz, l’amante morto ancora caldo, non parlerà. Sarà la cosa di carne Emma a tradirsi non cosciente. Arthur il medico ipnotista scrittore, non può che osservare con indifferenza di ghiaccio la decadenza di lei. Stefan, il buono, recupera Irene, adultera anch’ella e sfortunata ma ingannata (il lettore saprà), confinata nel letto della dolce espiazione, inquadrata al mattino, mentre i figli cinguettano "come i passeri alle primi luci dell’alba" (doppio domestico, i figliolini, del chiaro riso di bimba della insuperata "Traumnovelle" per sempre schnitzleriana). E sarà un susseguirsi di signorine e domestiche e marito che si reca in tribunale come d’abitudine. Zweig, in vena di perdoni, si sforza di ricomporre quel caos ove pur avverti che restaurare significa incollare d’obbligo i frammenti. Irene Wagner, col denaro che la ricattatrice le estorce, può "comprarsi qualche giorno di pace, una parvenza di felicità". "Mi aggrappo a ogni ultimo brandello di libertà di cui possiamo ancora godere, pronuncio ogni mattino una preghiera di ringraziamento, perché sono libero, perché sono nel Regno Unito". Così Zweig-Irene, al culmine di quell’"Angst" che cercava di esorcizzare, scriveva da Londra al suo amico Joseph Roth. La fiction s’era già incarnata nel rogo nazista dei suoi libri del 1933.

mercoledì 6 giugno 2012

James, amare Londra nonostante tutto

Certo, di terremotatore vero e proprio non saremmo forse autorizzati a parlare, quando si tratti di Henry James, nome di tale importanza al quale ci si accosta in maniera reverenziale, al contempo essendo difficile resistere ad un seduttore letterario di tale immediatezza che simboleggia più di tanti altri la crisi della "victorian novel", non essendo nemmeno inglese, o magari inglese per sbaglio, quasi come un malato sulla soglia estrema che si converta alla religione all’ultimo istante utile. Il suo prendere la cittadinanza inglese (lui, l’americano straniero) il 26 luglio del 1915 è solo l’anticipo di una morte che non tarderà ad arrivare, il 26 febbraio 1916. Fu inglese a tutti gli effetti per breve periodo; o magari lo fu per tutta l’esistenza, o in gran parte di essa, in modo virtuale. Il recente volume "Ore inglesi" (Editori Internazionali Riuniti, pp. 319, euro 9,90) sta lì a testimoniarlo con la forza del capolavoro autentico. Tradotti fluidamente da Roberta Arrigoni, ecco a disposizione vari "saggi" (come un risvolto di copertina li definisce - ma è solo una delle tante possibilità) che vengono qui proposti per la prima volta in lingua italiana, perlomeno assieme. L’effetto, vi garantiamo, è sorprendente.


Impressioni

"Gli scritti compilati in questa raccolta – è lo stesso James a presentarli in una nota del 1905 – pubblicati inizialmente in diversi periodici, sono stati già ristampati". "Ogni saggio reca la sua data, e apparirà evidente che le impressioni e le osservazioni di cui essi in buona parte si compongono abbiano visto la luce in uno stadio iniziale del rapporto che li lega al loro argomento generale. Contengono un buon numero di suggestioni, giudizi ed emozioni, a volte legittimi, a volte fallaci". Non pare forse di udire reminiscenze di qualche saggio filosofico? Magari sulla "percezione", termine fondamentale nell’approccio sensista che domina nel dibattito letterario, soprattutto inglese, ben oltre il Settecento. La stessa poesia romantica, all’epoca della sua "fondazione", si può dire che si basi proprio su quelle "emotions recollected in tranquillity", se magari vogliamo rifarci al patriarca Wordsworth. E certo in quella sorta di "cross-over" vivente che fu James, in qualche modo c’è la reviviscenza dell’età dei Lumi, dove però l’illuminazione scenica è mutata. Viva, moderna, concedendosi a bagliori dichiaratamente pittorici, volentieri notturni. Londra è qui inesorabilmente, inevitabilmente "caput mundi", alla Woolf, che del resto non fece mistero della sua venerazione per James, celebrando la capitale, più che in altri luoghi, soprattutto in quel suo capolavoro sinistramente (ed erroneamente) considerato "minore" (o addirittura non considerato) che è "The Years".


Una di Hyde Park Gate

Certo che Virginia, una di Hyde Park Gate, non poteva certo percepire Londra (e il resto dell’Inghilterra) sulla scorta del nostro pellegrin fuggiasco, febbrilmente in viaggio, quasi con una pistola alla tempia, James, nella inesauribile opera di ricognizione e testimonianza. Siamo di fronte a "saggi", articoli, con queste "Ore inglesi", ma si adatta l’oggetto d’indagine a ciò che James pensava del romanzo (che, come si avanzava sopra, contribuì non poco a terremotare, a fare a fette, fino all’involuzione massimamente sperimentale, per citare un titolo, di "The Sacred Fount"): considerandolo - ne "L’arte del romanzo" – al pari di "storia". Insomma, "rappresentare e illustrare il passato, le azioni degli uomini, è compito sia dello storico sia del romanziere; la sola differenza che io possa vedere torna a tutto onore di quest’ultimo (in proporzione naturalmente alla sua riuscita) e consiste nelle maggiori difficoltà che egli incontra per raccogliere le prove, che sono ben lungi dall’essere puramente letterarie". Certo, qui, si parla di romanzo, genere visto come una sorta di faro sul "passato". Ma, quando è il presente che vada documentato, ecco che lo studioso, lo storico-romanziere e l’oggetto di studio vengono a coincidere. Con movimento inavvertibile ma costante, insomma, James fa emergere in primo piano, quale oggetto, non tanto la Londra presa come valore assoluto, ma se stesso, la "sua" Londra, la sua "Inghilterra". Non avremmo troppo dubbio in merito, anche perché usciamo rafforzati nella convinzione dal fatto che James presenti in sostanza, come si diceva sopra, "suggestioni, giudizi ed emozioni" che possono essere sia "legittimi" sia "fallaci". Ma su cosa si dovrebbero fondare legittimità o fallacia? Probabilmente sul dato, rilevato da Franco Cordelli in una sua prefazione al garzantiano "Giro di vite" che "l’arte non è, dunque, estetica allo stato puro". Anzi, l’arte "è per James il punto di convergenza dell’esperienza", seguendo qui Cordelli un saggio di Georges Poulet. Il che ci sembra prospettiva criticamente più stabile dell’ovvia mitizzazione dello scrittore eternamente girovago; elemento, quest’ultimo, certo da non trascurare, ma che andrebbe forse ricollocato in un quadro generale di più realistiche proporzioni (e utile ad una più chiara percezione dell’autore). Poiché è pur vero, ad esempio nello stupendo "Londra" che apre il volume (1888), che lo scrittore si definisce "l’esiliato", "lo straniero deciso ad amare la sua Londra costi quel che costi", che qualche riga sotto "si scopre completamente solo in una biblioteca fumosa". Ma la "missione" romanzesca, chiamiamola così, non gli deve impedire di narrare il vero. A partire dal "sudicio quartiere di Bloomsbury da un lato, e Soho, più sudicia ancora, dall’altro". Senza obliare che il diorama, la lastra della città, per essere il più esatta possibile (vale a dire, esattamente filtrata dall’occhio interiore che percepisce il fluire dell’esperienza), non potrà mancare di recare con sé lo spaccato socio-economico. Un po’ come se sotto Londra ci fosse dell’altro, a seconda dei punti di vista. Tanto che "gli scenari rurali" costituiscono "il vero sostrato della vita nazionale". Ma non basta: poiché, senza tema di cadere in contraddizione, James scrive che Londra è "sgraziata e brutale", è "come un’orca poderosa che divora carne umana". E ancora, in uno dei culmini orchestrali del pezzo: "Non ho la minima idea di quale potrà essere l’evoluzione futura di questo prodigioso mostro proteiforme; se i poveri prenderanno il posto dei ricchi, o se i ricchi spoglieranno i poveri di ogni cosa, o se gli uni e gli altri seguiteranno a convivere sulla stessa base instabile della loro relazione attuale". Restando in tutto questo una sorta di rumore di sottofondo, visto che "l’impressione di sofferenza è parte integrante della vibrazione generale". Anche se il tutto non è affatto male, rientrando nel dominio dell’esperienza. Dato che proprio la sofferenza, o meglio, l’impressione di questa, "è uno degli elementi che, unito a tutto il resto, produce quel suono che sta sommamente a cuore a colui che si ostina ad amare Londra: il fragore dell’impressionante fucina umana".


Ostinazione

Colui che si ostina ad amare Londra, certo, ma anche l’Inghilterra tutta. Con qualche lieve dubbio su quale oggetto (Londra o Inghilterra) sia maggiormente investito d’amore. Gli piace il Tamigi, benché un po’ squallido, cui magari non nega una luce, diciamo così, alla Monet, ma dichiara di preferirlo, tanto per non smentirsi, "quando si trasfigura e si dissolve nella città". Quello stesso fiume che, in uno scritto del 1877, gli offre inaspettati stati allucinatori, un "brivido immaginativo". Dato che i "pilastri mastodontici dei ponti, in particolare, sembrano a tutti gli effetti le colonne dell’impero". Ovviamente britannico. Occasione di escursioni frequenti. Talvolta sfocianti nel gotico, inteso come genere. A Canterbury scende nella cripta e brancola nella penombra. Gli elementi atmosferici intanto preparano il loro teatro: "Mentre mi trovavo lì, un violento temporale si abbatté sulla cattedrale; forti folate di vento e scrosci di pioggia spazzavano i lati aperti della cripta". Un effettaccio che sarebbe piaciuto anche a Chateaubriand con qualche probabilità. Anche se alla fine tutto viene sussunto in una più ampia unità, vale a dire "l’argomento generale" di cui lo stesso James, come già visto, discetta nella presentazione. Non solo temporali o non solo quella primavera di eterna sospensione ("niente pioggia – e men che meno sole"). Anche intervalli, come si apprende dai "Quadretti inglesi", di "luce e tepore e, in Inghilterra, un paio d’ore soleggiate strappate al maltempo acquistano una loro indipendenza e lasciano una traccia indelebile nella memoria". Quale compito nobile e gravoso, allora, sarà quello affidato alla scrittura. Sospesa in maniera inimitabile, perigliosa sempre, mai però priva di vigore, tanto da non essere certo una leziosa "metascrittura", anche se talvolta può sembrarlo. Del resto, nel regno della contraddizione provata (della scrittura stessa, alla fine), che si riflette nel foglio bianco da riempire, tanto potente è Londra come città, che "è l’unica che riesca a farti sentire in aperta campagna".

martedì 5 giugno 2012

L'ipnosi attraverso i secoli

Usa la definizione di "denso libro" Gianni Vattimo quando per "l’Espresso" recensisce "Suggestione. Potenza e limiti del fascino politico" di Andrea Cavalletti (Bollati Boringhieri, pp. 175, euro 15,00). Ove "denso" vale di sicuro per "complesso", "vasto" ma anche per troppo disinvoltamente quanto cripticamente "sciolto", tanta è la materia sottintesa e, paradossalmente, altrettanta è quella dragata con zelo, come si evince anche dai "Riferimenti bibliografici" posti in chiusura, soluzione che parrebbe escogitata per evitare - ma non si sa perché - le note a fine capitolo o a pie’ di pagina, quasi a volere dare fluidità maggiore alla trattazione, la quale comunque deve essere interrotta in continuazione, data la mole di exempla con cui l’autore imbottisce il suo prodotto. Un po’ libro di biopolitica (ma non del genere "Prigioni della mente" di A. Zamperini, Torino 2004), un po’ galleria erudita anche se la mano pittorica dell’autore non si sforza più di tanto nei tratteggi d’ambiente, pur non fuori luogo, visto che la carrellata parte dal Settecento e si ferma all’incirca all’Italia fascista, più agevole da prendere a simbolo delle pratiche ipnotiche messe in atto dai regimi dittatoriali.


Anche oggi…

Che, per il citato Zamperini non si esaurirebbero certo con la fine puramente nominale della dittatura stessa. Poiché l’ipnosi, la suggestione, sarebbero attive a pieno ritmo ai giorni nostri, e anzi, con tecniche maggiormente invasive, prive di scrupolo e massimamente illusorie. Insistiamo ancora sulle conclusioni di Zamperini: "Che resta di noi? Sembra che tutto dipenda dalla struttura che ci ha prodotti e che ospita le nostre azioni. Come se fossimo forza d’inerzia incarnata. Illusi di essere noi stessi mentre invece non lo siamo affatto. Sebbene continuiamo a scacciarla dalla mente, si insinua l’idea di una realtà ridotta a prigione pavloviana. Dove il pensiero viene sequestrato e si aspira a un’identificazione senza residui tra i singoli e il dettato della struttura. Un mondo di segnali a ciascuno dei quali è associata una sola e obbligata risposta. Una resa davanti al potere del sistema". Anche se, continua tra le macerie Zamperini, si manifestano qui è là degli "assenteisti" (evidentemente delle menti libere), che sarebbero dunque in grado di sottrarsi alla grande ipnosi. "Sulla scena allora non c’è solo un personaggio che si conforma supinamente a un copione prestabilito. Vi è anche un attore resistente. Impegnato nel compito di modificare il ruolo attribuito o addirittura di non ricoprirlo. La nostra analisi lascia così aperta una porta per una soggettività rivendicatrice. Intenzionata a dire di no all’autorità e ad affermare se stessa". Parrebbe indubbiamente strano il parlare di un testo, quello di Andrea Cavalletti, e dare così tanto spazio ad un libro di Adriano Zamperini. Eppure le conclusioni un poco sconsolate del secondo (che vorrebbe aggrapparsi alla speranza ma non indica una via verso di essa) potrebbero fungere da racconto, da scheletro, da "fabula" del trattato del primo autore. Ché Cavalletti parte da "Mario und der Zauberer", "Mario e il Mago" di Mann, novella del 1930 (tradotta in Italia almeno quindici anni dopo) per mostrarci, dopo un percorso in pratica di secoli, cosa fosse divenuta l’ipnosi (in questo caso di massa), dando principio alla sua trattazione a partire da vari nomi impolverati assai, come quello di Franz Anton Mesmer, autore di pubblicazioni quali "Mémoire sur la découverte du magnétisme animal", del 1779, o la "Lettre à un médecin étranger", 1775. E se si giunse a stabilire che il magnetismo era una favola, differenti furono i pensieri intorno all’"immaginazione", concetto non coincidente con proprietà invisibili e magari di più vasta pericolosità sociale o, rigirando la prospettiva, macchina di controllo sociale. Poiché a un fluido incontrollabile alla fine in qualche modo si credeva. Jean-Baptiste Moheau, in pratica uno scienziato "della popolazione" (è la disciplina che poi verrà definita come statistica), pubblicava nel 1778 le sue "Considérations" ove tratta di un "fluido immenso" che avvolge il nostro globo, penetrando dappertutto, anche nei minimi interstizi. E Nicolas Bergasse - un altro dei grandi semidimenticati ripescati da Cavalletti nella sua teoria di personalità per addettissimi ai lavori - parla, sempre in chiusura di Settecento, di odio e collera e paura, "passioni contagiose che si comunicano con una rapidità che ha talvolta del prodigioso". Ove si ha da notare che l’elemento irrazionale, il "prodigioso", è l’ultima scappatoia possibile concessa quando il vaglio critico non sappia farsi un quadro chiaro e definito dei fenomeni. Di massa specialmente.


I villeggianti

Stupisce che nel Novecento, nella località di villeggiatura italiana dove Mann si trova con i suoi, si dia credito, seppur in versione cialtronesca, al Mago, all’ipnotizzatore, al Mesmer novello, che in realtà non è morto mai, nonostante strumenti di misura che si reputavano aderenti alla conformazione della realtà fisica avessero confermato che la trasmissione invisibile di non si sa bene cosa fosse solo un’impostura. Come nota Vattimo, nella recensione sopra segnalata, "proprio con la scoperta che il mesmerismo e l’idea di un fluido trasmesso invisibilmente non hanno fondamento si comincia a parlare di suggestione, di diffusione di idee per una sorta di contagio prodotto dal potere dell’imitazione". La pratica cialtrona, proprio perché reputata tale, non viene in realtà fatta sparire, ma cambia, per così dire, di padrone. Non il mago imbonitore, dunque, ma un controllo superiore, una super-direzione, un occhio scrutatore e veramente ipnotizzatore. Der Zauberer di Mann è Mussolini, è il dittatore. E’ anche Hitler. Ernst Schramm, che si è occupato dei tiranni, parla, alla maniera vetusta, ancora un po’ alla credulona, da collasso dell’età dei Lumi, dello sguardo di Hitler, che "affascinava con i suoi occhi di un azzurro profondo, sempre lievemente sporgenti, occhi quasi brillanti". Ma questi possono ancora essere gli occhi del Mago Cipolla di Mann, dell’ipnotizzatore vecchio stile, non certo il fulcro dell’apparato di controllo di cui ci ha resi consci Foucault, come ricorda Cavalletti: "Dispositivo biopolitico di controllo della vita e di divisione continua di questa vita tra ciò che dal punto di vista dello Stato appare normale o patologico, pericoloso o sicuro". Alla fine della cura "statale", dovremmo avere la prigione descritta più o meno apocalitticamente da Zamperini. Nonostante qualche attore cominci a scuotere il capo, a ribellarsi dal copione obbligatorio.


Via di fuga filosofica

E anche per Andrea Cavalletti c’è modo di uscire dall’esperienza totale della cecità e dell’obbedienza. Innanzi tutto c’è il ricorso alla violenza: Mario uccide il Mago. Ma negli ultimi passi del trattato, col ricorso alla filosofia più che alla psicanalisi (che della suggestione spesso e volentieri si è servita), l’autore propone un rapporto anche più morbido fra ipnotizzatore e ipnotizzato. Con Heidegger che rilegge Aristotele ("Sull’essenza e la realtà della forza", tr. it. 1992) si introduce il concetto di "passività che vibra, priva di resistenza". Così che "la forza del suggestionatore si duplica e confonde nella spossatezza del sonnambulo, è in balìa della passività del suggestionato". Come se, a un tratto, nel processo stesso, le differenze si azzerassero, stabilendosi una sostanziale parità. Negli interstizi stessi della suggestione si nasconderebbe un sorta di risoluzione, per lo meno in via teorica. L’importante – ha sostenuto Cavalletti intervistato a novembre da "Repubblica" - è uscire dalla concezione "verticale" della relazione di dominio: "Se si accedesse a una dimensione dove passività e attività si confondono, come può accadere in un rapporto amoroso, allora non dovremmo temere un mondo dove ‘tutto è suggestione’". A dire il vero, e non temendo dunque di osare, ci piacerebbe esporre un nostro particolare richiamo ad un filone filosofico in qualche maniera correlabile a termini come suggestione, attrazione e affini. E’ la filosofia di Campanella e Telesio: ove gli esseri si trovano in un rapporto di "interazione" reciproca (la versione "buona" del mesmerismo, insomma). Ove "conoscenza" è in qualche misura "perdita" (e il suggestionatore scenderebbe dal podio, si depotenzierebbe). Ove non si esclude che l’uomo possa modificare tali rapporti tramite la magia. Con qualche sforzo, seguendo il filone, ci si può anche ritrovare sotto l’occhio incantatore del ciarlatano Mesmer. Ciarlatano o resuscitatore di un’antica tradizione proibita?

martedì 29 maggio 2012

Porfirio, scene da basso impero

Mondo pagano e mondo cristiano in drammatico, pericolante equilibrio. Lo sfondo è quanto mai da basso impero. Giunse, un dì, su questa terra, un Cristo del tutto inconcepibile rispetto alla enorme, distesa tradizione platonica, puntellata dalle sue modalità in realtà legate alle varie prospettive interpretative di come la divinità potesse palesarsi nel mondo. O l’uomo ad essa risalire, per quali scale d’anima. Realtà degradata, quella mondana, tanto che il sapiente, o il di lui seguace, spendeva il suo impegno nel percorrere le strada a ritroso nel miraggio di un ricongiungimento. Padri della Chiesa e filosofi della religione antica gli uni contro l’altra armati. Porfirio, allievo prediletto e combattivo di Plotino, non subì il fascino della conversione al nuovo e si impegnò con la parola scritta e l’insegnamento a dimostrare l’inconsistenza e l’"ignoranza" dei cristiani, qualifica del resto d’ordinanza all’interno dell’ambiente neoplatonico. "Nessuna meraviglia che i più ignoranti considerino le statue pezzi di legno e di pietra, proprio come quanti non capiscono la scrittura guardando le steli come pietre, come legno le tavolette e come papiro intessuto i libri". Così il sapiente, ma anche maestro di cerimonie mistiche e riservate, in un frammento iniziale di "Sui simulacri", "Perì agalmátōn", resuscitato in queste settimane in una generosa edizione Adelphi (introduzione e commento di Mino Gabriele, traduzione di Franco Maltomini, pp. 287, euro 17,00). Opera, si diceva, frammentaria, destinata alla scomparsa, alla cenere, se Eusebio di Cesarea non ne avesse citato varie parti nella "Praeparatio evangelica", ovviamente col compito di mostrare gli errori della religione falsa e menzognera. Porfirio di Tiro (233-305 d. C.) qui, nonostante il veleno sparso dalla patristica, temente di perdere la sua battaglia, procede regalmente nella dissertazione, a metà fra la celebrazione rituale e l’ambizione didattica. Non basta, poiché "Perì agalmátōn" va visto come manuale e guida specializzata "tematicamente" nella foresta simbolica. Ma, si badi bene, avverte Porfirio, "parlerò per chi è lecito". E dunque, "voi profani chiudete le porte". Porfirio svelerà. E’ ierofante, cioè anche sacerdote, ma dispensatore di saggezza dal consumato profilo. La sua è lectio magistralis, cerimonia e guida. Alle sue spalle il dispiegamento della sapienza si è già consumato: "Mediante questi simboli, dunque, viene disvelata la forza della terra". Porfirio è conscio della pratica dell’uso simbolico delle imagines, dell’ágalma. Il simbolo, ciò che sta al posto di altro, come precisa Gabriele nell’introduzione, "smesso l’abito ‘di chi fa le veci’ può apparire come ‘cosa’ in sé, autosufficiente, fino a proporsi, specialmente in ambito mistico-religioso, come una teofania, sino a diventare esso stesso oggetto di culto". Dunque, da mero supplente per un invisibile comunque costantemente irraggiungibile, "a soggetto autonomo". Solo la dimensione simbolica, insomma, è in grado di azzardare l’impresa di riprodurre e dare nome "a idee impalpabili, agli dèi e all’aldilà, ai primi princìpi e alle più occulte ragioni delle cose sino all’ineffabile". Il simbolo, il simulacro, vive in questa costitutiva ambiguità che, appunto, lo sostanzia: escluso il suo essere solo come somma delle caratteristiche del materiale di cui è fatto (i polemisti cristiani battevano proprio su questo tasto, all’infinito: dietro la materia, niente) è la migliore introduzione ad altro, all’Altro. E’ la porta, la visio all’umana tensione verso il soprannaturale. Le speculazioni sul divino "narrano e discutono sul modo di esprimerlo in maniera conveniente ai sensi umani". Che, purtroppo, dato l’esilio terrestre, sono i più poveri, i più ciechi per cogliere realtà superiori dalle quali siamo drammaticamente lontani. Neppure un bagliore ci giungerebbe se non fossimo in grado di stimolare una sorta di reviviscenza verso le cose come furono, come "sono". Del resto l’anima, nella sua discesa, cade nell’oblio delle realtà intelligibili, smarrendo qualsiasi purezza originaria. Il simulacro, certo, è approssimazione, via altamente indiretta, eppure è una delle occasioni che ci vengono date per tentare di ripercorrere a ritroso la scala della discesa. Porfirio, conscio della trappola materiale, esorta chi è ammesso al rito della risalita. Al contempo non rinuncia ad un approccio ancora oggi familiare a noi, usando la strada della spiegazione dei nomi divini su base "etimologica". Ma difficilmente è circoscrivibile la ricchezza di questi preziosi frammenti, come dimostra del resto la trapunta fitta del commento di Gabriele, 180 pagine spalancate sull’abisso del mondo classico, che il cristianesimo non riuscirà ad umiliare né addomesticare, e che vedremo rivivere splendidamente nella Firenze ficiniana.

iPad, ovvero la rivincita della scrittura

Non ci si lasci ingannare dall’allegra e spiritosa copertina di "Anima e iPad" (e neanche dal titolo, ad essere sinceri), penultimo libro di Maurizio Ferraris (Guanda, pp. 185, euro 16,50): non è un testo semplicissimo e bonaccione, come i tanti che girano in questi ultimi tempi, consacrati più o meno alle meraviglie e alle ricadute planetarie, ma anche spesso personali, della diffusione delle tecnologie di massa: vedi iPod, iPhone, iPad, la grande triade in cui pare essersi articolata, cristallizzandosi, la rete della comunicazione globale. Anzi, dalla triade sarà bene escludere proprio il primo dio in ordine di tempo, cioè l’iPod, piuttosto segnale cupo derivante dalla tragedia dell’11-09-01, il decennale del quale è caduto in questi giorni e di cui si sono celebrate (dell’iPod, intendiamo) le ritrovate qualità (negative, in sostanza) di incomunicabilità e isolamento. Crolla New York in maniera metonìmica (le Torri sono la pars pro toto): e nella stessa maniera (metonìmica) è crollato e viene sfidato l’Occidente. E Steve Jobs, per tutta risposta, a poche settimane di distanza dall’attentato, ti tira fuori il successore totalmente digitale del walkman, l’iPod, ponendo così fine alla pratica dell’ascolto collettivo. Tutti ben chiusi in noi col nostro bagaglio di canzoni contenute in tasca, muniti di cuffie, a fare esperienza uditiva individuale. Nessuna gioia collettiva, dunque solo un ripiegamento, una ferita che deve rimanere aperta e non essere rimpiazzata da nuove costruzioni ambiziose, poiché la ferita è memoria, come invocava anche l’ultimo Hillman sempre più riguardoso a sacrificare agli dei del luogo. Resta l’iPhone, un po’ telefono un po’ bussola un poco computerino, se non fosse che Steve Jobs, ai primi posti nelle vendite in libreria in pratica dal giorno della sua morte (ci riferiamo alla recente instant-biografia di Isaacson, edita da noi per Mondadori, libro cui giusto mancava la scomparsa dell’eroe), prima della dipartita volle ingrandire il telefono cellulare, ma non troppo, imponendo al consumo collettivo la geniale tavoletta chiamata iPad.


Socrate e Platone

E’ da questo oggetto che parte Ferraris, e lo fa in maniera fintamente spiritosa o scherzosa. L’autore è un filosofo, ordinario di Filosofia teoretica all’Università di Torino, editorialista di prim’ordine e nome di fama internazionale, condensatore, fra le altre cose, di Socrate, Platone e Aristotele in un volumetto recentissimo che si accompagnava con "la Repubblica", presto andata esaurita grazie al supplemento di cui sopra. Risultato brillante di vendite che indica come la fame di sapienza, di filosofia, sia elevata presso il lettore italiano, che sarà in ogni caso chiamato a sfida interpretativa più elevata col volume di Ferraris dedicato all’iPod. E non solo a quella sfida, ma a una più vasta visione concepita con l’ossessione della scrittura (che pare appunto l’ossessione di Ferraris), della traccia, fino al paradosso messo alla dura prova della dimostrazione. "E se l’automa fosse lo specchio dell’anima?", recita il sottotitolo. E ancora ci sfugge l’intreccio dei collegamenti. "L’anima assomiglia a un libro, in cui si accumulano iscrizioni, memorie, immagini. Un libro animato, insomma, un ‘animated book’, un a-book potremmo dire. Ma tanto vale, allora, dire, per il momento, un iPad". Visto che "la tabula è la condizione di possibilità del pensiero" (ove "possibilità" indica tutto e niente). Ma "senza quella tabula non c’è spirito, non c’è pensiero, non c’è mente". Ferraris, dall’alto della sua propria memoria, o delle appendici che da memoria sua propria fungono (i libri, certo, ma magari anche ciò che trova scritto nel suo iPad, grande metafora al momento tecnologicamente avanzata per ciò che oggi è possibile - altri sostituti giungeranno, si suppone) è in grado di citare molti filosofi.


Kant

Non viene ultimo Kant, "forse l’autore che si è maggiormente impegnato nella ricerca di una immaginazione totalmente produttiva, e questo per ragioni di coerenza concettuale del suo sistema". E dunque un po’ di ripasso delle cose liceali sarà pur d’obbligo, altrimenti le connessioni del discorso dimostrativo di Ferraris svaniscono e rendono poco chiaro l’impianto del saggio. Insomma, seguendo Ferraris, nella filsofia kantiana - volendo proprio farla corta - "bisogna che gli schemi vengano generati non da una immaginazione riproduttiva, bensì da una immaginazione produttiva". L’immaginazione produttiva, per così dire, è una sorta di autentica forza creatrice, che agisce a partire non certo dal già assimilato, dal già saputo. Ora, essendo Ferraris ossessionato dalla scrittura, dal documento, in sostanza dalla riproduzione (l’iPad è una centrale di documenti, una centrale riproduttiva estesa globalmente), nota che anche Kant, volendo affrontare, per così dire, il tema di una scaturigine pura, che non si limiti alla replica del già scritto, si comporta in modo evasivo, dato che, "quando si parla della immaginazione produttiva, ossia della immaginazione pura, che non avrebbe niente a che fare con la memoria, si entra nel mistero assoluto, e tutto quello che si riesce a dire, anche quando a parlare è un grandissimo filosofo, è che questa immaginazione produttiva è diversa da quella riprdoduttiva". E parliamo, per l’appunto, di Kant, che non esce dall’imbarazzo (suo, nostro?), ma si limita a dire cosa "non" sia l’immaginazione pura, produttiva.


Acqua

In questo snodo, collocato alle pagine 49 - 50 del suo stimolante saggio, Ferraris porta molta acqua al mulino del suo impianto. Vuole dirci, insomma, che "non si riesce mai a identificare uno spirito radicalmente separato dalla lettera, dalla ritenzione, dalla ripetizione". Per citare Roman Jakobson, quello dei "Saggi" Feltrinelli, "il parlante, come regola generale, è solo un utente e non un creatore di parole". Se poi andiamo anche a guardare, sempre di Ferraris, il suo libretto su Socrate, Platone e Aristotele, quello per "Repubblica" uscito sabato scorso, avremo una ulteriore riprova di ciò che al nostro professore di filosofia interessa dimostrare. Un esempio: "Quando definisce il funzionamento della mente dell’uomo, Platone ricorre alla metafora del libro, quindi pensa la mente sulla base del modello della scrittura". E, ancora, quando si dice – e qui la connessione è esplicita - che "abbiamo un Platone filosofo dell’iPad, del computer, del telefonino e di internet". E tutto questo esponendo l’ideologia platonica, non certo favorevole alla scrittura che in realtà "rovina la memoria". Insomma, viste le basi, non stupisce certo che Ferraris abbia dato alle stampe "Anima e iPad". L’ultima invenzione di massa di cui l’umanità sembrerebbe servirsi - in totale incoscienza del passato, si potrebbe aggiungere - è l’iPad, in sostanza strumento che si basa sulla "rielaborazione delle iscrizioni che ci portiamo dentro" (dal volume edito da Guanda, come il resto delle citazioni che seguiranno). Detto in altri termini (il luogo è lo stesso), "pensare, avere un’anima, possedere uno spirito - tutte le figure della nostra interna animazione - significano essenzialmente, ricordare, ossia ricorrere alle iscrizioni che si depongono sulla tabula che abbiamo in testa". O sull’iPad che abbiamo davanti. L’iPad è l’ultima delle tabulae nella storia dell’umanità. Il suo successo, la sua diffusione, corrisponderebbero certamente ad un bisogno, ad un atteggiamento secolare, che si perde agli inizi della storia.


Chiarezza

Ma è con Kant specialmente che la posizione di Ferraris diventa più chiara. O, meglio, è partendo dall’elusività di Kant che Ferraris colloca all’origine di tutto la scrittura, anzi, la "registrazione" della scrittura. L’immaginazione produttiva è inspiegabile, in sostanza. E’ "arte nascosta" (così nella "Ragion pura"), difficile da esibire "patentemente" (sempre dalla "Ragion pura"). Dalla piega mai spiegata (ma in certo modo scossa, spiegazzata) Ferraris ricava una legge parimenti "patentemente" difficile da illustrare nella sua luminosità evidente. Crediamogli piuttosto quando sostiene la "lettera" quale "condizione di possibilità dello spirito". L’iPad è solo l’ultima delle materializzazioni scrittorie; con l’iPad la scrittura entra nell’era digitale. La scrittura, si badi bene, poiché di questo si parla in un regno contemporaneo che sembrava votato al visivo puro, all’immagine. Saremmo, dunque, tutti scribi, disperatamente scribi, ineluttabilmente tali, fino alla costrizione, aleggiando l’ipotesi che gli scribi che siamo possano finanche essere automi. "La spontaneità e la creatività che avvertiamo in noi, il fatto di possedere dei contenuti mentali, delle idee, e di riferirci a qualcosa nel mondo, non sono prestazioni che confliggano con la possibilità che l’origine di tutto questo vada ricercata in registrazioni e iscrizioni". E ancora, tanto per citare una frase ad effetto: "Siamo automi e non lo sappiamo – e del resto come potremmo saperlo, dal momento che siamo automi?". Decade il problema fittizio di una qualche anima albergante chissà dove (dualismi e dintorni); ma se ne va anche – poiché ritorna scrittura – l’idea di un dio. L’ultimo Freud fa derivare il dio di Mosé dall’egizio Aton, che diviene Adonai, che diviene Bibbia, libro sacro e trasportabile e, con salto comprensibile, anche iPad, mummia quintessenziale e "meno impegnativa" delle mummie vere, registrazione, traccia. E’ ciò che resta ed è ciò che era (nemmeno un’intelligenza superiore come quella di Kant sa dirne di più).

sabato 26 maggio 2012

Durs Grünbein, il muro è un ricordo. O forse un mito

Di fronte alla mole di "Ricostruzioni. Nuovi poeti di Berlino", l’importante antologia sui "novissimi" (anche di anni cinquanta all’anagrafe) che si sono raccolti nel calderone berlinese negli ultimi anni, ci è venuto in mente Durs Grünbein, che non può far parte della raccolta perché lo spazio che si è creato nel tempo è tutto speciale. E’ colui che si è conquistato il posto di cantore delle Germanie al trapasso, coltivando l’ambizione, nota Italo Testa sull’ultimo numero di "alfabeta", di diventare in pratica una sorta di cantore rappresentativo dello Stato (dei due Stati) diviso e di quello riunificato. Conosciamo Grünbein verseggiare in italiano grazie all’intermediazione di Anna Maria Carpi, responsabile, per i tipi di Einaudi, di tre raccolte del poeta nato nella Germani Est, a Dresda, nel 1962. "A metà partita" è una silloge del 1999, comprendente una selezione delle prime cose, mentre "Della neve ovvero Cartesio in Germania" del 2003 - 2005 in traduzione – è una sorta di grande poema in alessandrini dedicato al noto filosofo, la cui figura è correlata al "bianco", come si vedrà brevemente più avanti, nelle sue declinazioni e nei suoi significati. La novità "italiana" per Grünbein e per noi, in questi ultimi mesi, è rappresentata dalle "Strofe per dopodomani e altre poesie" (pp. 207, euro 12,50), che fanno il punto sullo stato dei lavori recenti. Pare che la critica tedesca, ci informa il succitato Testa, abbia iniziato a manifestare qualche dissenso o, meglio, "insofferenza", per la "compiaciuta erudizione, il pathos della distanza e il décor neo-antico dei nuovi versi". Il che a Testa, tutto sommato non dispiacerebbe, visto che permette di rilevare "l’audacia e di misurare il prezzo della calcolata ‘inattualità’ nell’evoluzione più recente della poetica dell’autore". Grünbein, insomma – ma non certo in tutte le liriche di "Strofe per dopodomani", ci pare – mirerebbe ad una sorta di spazio "aere perennius" che, preso nelle sue estreme conseguenze, potrebbe anche portarlo ad un isolamento dorato (o bronzeo). In effetti, quello della frizione fra individualità e dato realistico, sociale, è un punto che l’autore avverte come centrale nel suo lavoro. In una intervista con lo stesso Testa risalente al 2000, Grünbein pare assai attento a questo dualismo che poi potrebbe non essere in effetti tale: "Credo che naturalmente la poesia sia ancora il più intimo dialogo dell’uomo con se stesso. Però qui non è del tutto chiaro chi sia questo ‘sé’. Nel mio caso può trattarsi di un dialogo con se stessi sull’intossicazione: il problema è sempre scoprire sino a che punto si è contaminati dal tempo, dall’ambiente, soprattutto dalle idee del tempo. In questa misura è corretta la tesi per cui il soggetto non è mai puro. E dovremmo fermarci qui, perché non ci è dato fare molti passi avanti. Ma questo è un punto molto importante. Non vi è affatto quella contrapposizione ideale per cui da un lato starebbero la società, la modernità, lo spirito del tempo, e dall’altro starei io, in quanto singolo, con la mia verità. Questa non è una verità ma solo uno strumento". Insomma, è da postularsi un particolare processo, diremo osmotico, per cui, comunque, il poeta sarebbe portatore di una visione in cui ciò che è fuori, nonostante ogni tentativo di tenere le cose del mondo lontane, finirebbe col manifestarsi inevitabilmente? Grünbein è anche l’autore di un monumentale poema quasi teatralizzato, "Della neve", dedicato a Cartesio. "A me ci vuole l’ombra che contorna – dice il pensatore al servo-aiutante Gillot – Una marmotta sono/che si rintana, a luce di candela./Mi spaventa la neve, questo lenzuolo funebre,/come bocca che sbava, o come occhi rovesci./Il nuvolo mi strappa dalla tana,/non il ghiacciaio sfavillante". Dunque, "Prendi nota, Gillot: nulla disturba il meditare tanto/quanto un chiarore che va dritto agli occhi". "L’inverno – commenta la Carpi in una nota alla traduzione – è di certo anche una metafora della condizione moderna, che s’inaugura quasi quattro secoli fa con la separazione cartesiana fra res cogitans e res extensa, l’io pensante e le cose che si offrono ai sensi. Muovendo dalla ‘tabula rasa’ dell’inverno, i sentieri sublimi della conoscenza razionale portano al progressivo raffreddarsi dei rapporti dell’uomo con se stesso e con i suoi simili". E non è dato ancora comprendere quanto "Della neve" agisca come metafora del modo di porsi rispetto al reale, ad una cosa esterne che preme, oltretutto con insistenza. Da una parte, nella scena iniziale del poema, domina l’esultanza "pittorica" di Gillot che tenta di svegliare il padrone: "Fin dove arriva l’occhio è bianca la pianura,/è tutta un cono bianco. Sono gli alberi/ che il grande arrangiatore con invernale mano ha ingentilito". Lo scontro, insomma, è fra "der große Arrangeur" e qualche forma di io autentica, priva di scorie, l’io che Cartesio insegue. "Non mi serve l’esterno – replica – Ho da guardarmi dentro". E’ ricerca vana, utopia? Del resto è proprio il poeta a precisare che "è corretta la tesi per cui il soggetto non è mai puro". Neve o rane schiacciate, finite sotto le ruote: l’evento naturale o la mini-gigantesca catastrofe non sono mai eliminabili. "Come crocifissa giaceva questa rana/schiacciata sull’asfalto ardente/della provinciale". E ancora: "l’anfibio delle più antiche ere della terra/finito (…)". Per cui: "Non c’è risurrezione altro che in larve/di mosche – già mature domani". Cui fa seguito la domanda finale: "Per dove mai può fuoriuscire il sogno?". Questo si chiedeva un Grünbein più giovane, cui "der große Arrangeur" aveva riservato, al posto della neve, comunque fastidiosa, un piccolo teatrino dell’orrore e della corruttela che si agita nel mondo sublunare, per dirla neoplatonicamente. Solo per tracce sparse si può congetturare che la ricerca del "sogno" porti – vista la sgradevolezza dell’esterno – all’introiezione. Che è un falso rifugio, tuttavia. Nell’intervista di cui sopra, il poeta è abbastanza chiaro in merito. Alla domanda se la sua predilezione vada verso una lirica "monologica", replica così: "Da molti anni osservo in me stesso un movimento verso una dimensione dialogica. Ma credo che la poesia, quando si inizia a scrivere, cominci probabilmente da un monologo. Già l’espressione ‘poesie monologiche’ è l’indizio che si tratta di una posizione provvisoria, che la condizione propria di tale stadio debba essere superata. Già da diversi anni molte mie poesie, più o meno apertamente, si rivolgono a un partner dialogico, talvolta direttamente a conoscenti, talvolta ad autori morti, talvolta, e questo è il lato più segreto, a sconosciuti nel futuro. Così assume spessore anche l’aspetto drammatico all’interno della poesia, perché solo per questa via può crescere la tensione. Credo che alla poesia lirica sia inerente la presenza di un interlocutore: anche nel più amaro colloquio con se stessi vi è sempre un interlocutore, l’altro di se stessi, o il Dio perduto, come sempre. Vi è sempre qualcuno con cui si dialoga e mai un monologo puro. Vi sono, naturalmente, possibilità di aprire la poesia, una sensibilità per la moltiplicazione della propria voce che è in atto già da tempo nella mia opera. Poesie di ruolo, dove parlo con la voce di qualcuno totalmente diverso, per esempio un antico romano". Non dovrebbero far parte della dissociazione "di ruolo", nelle ultime "Strofe per dopodomani", episodi come "Congedo dalla Quinta era", ove "le aiuole del parco somigliavano ai congressi di partito", sebbene Testa, nella citata recensione per "alfabeta", parli di "mitologia" anche per quanto concerne l’era Ddr. Più evidente è la volontà di una lirica "anticata" in versi di tal fatta: "Si staccò la corazza dal cavaliere esausto/del suo star nella danza macabra affrescata". Sebbene, nel medesimo luogo, l’affastellarsi delle visioni segni l’animazione rispetto alla visione data per sempre: "Nel sonno quante posizioni prende/ognuno? Feto, crocifisso, Laocoonte, o Shiva?". Il che è un po’ come dire che la res cogitans, per quanto reclami d’esser lasciata indisturbata, è assai precisa anche nella cronaca della banalità: "La raccolta rifiuti è puntuale".

Evgeny Morozov, blogger bielorusso inquieto e critico

La dipartita di Steve Jobs fu seguita come evento collettivo, come via crucis dall’impatto globale. Difficile sapere con precisione quanto uno dei re Mida del digitale stesse pianificando tutto. Altrettanto c’è da dubitare sul fatto che egli lasciasse il minimo dettaglio al caso: non lo fece in vita, probabilmente non lo stava facendo in quei lunghi mesi durante i quali la condanna medica stava trasformandosi in viaggio senza ritorno. Lo conoscemmo in carne, ed ora, smagrito e galleggiante nel jeans e nel girocollo d’ordinanza, si presentava lo stesso sul palco. Nessuno poteva criticare, era una questione di privacy. Se qualcuno avanzava l’idea che un uomo-azienda come lui si sarebbe portato appresso, con la sua sparizione, anche l’intera ditta, la replica era secca, stizzita, urtata. Come a dire (e ciò era il massimo): ma cosa c’entra la Apple con me? A distanza di mesi si può dire che Jobs, anche in quei tempi fatali, abbia visto giusto: Apple è nei cervelli di tutti, vecchi e giovani. L’idea di un iPad ha sostituito quelli che un tempo (non troppo tempo fa) erano i pensieri intorno al computer. Jobs, il trapassato, non solo non ha condotto Apple nel luogo oscuro e senza ritorno, anzi. Quale esperto agricoltore ha ben seminato, magari pianificando le cose future ancora per anni. Certo, dopo l’iPad, cosa mai ci sarà? Ma la domanda ancora non si è infilata nelle menti del popolo, e dunque la domanda è come se non esistesse. Per ora il tempo va avanti con l’eterno presente della tavoletta. Il dopo non c’è. Sarà nel momento in cui sarà. E tanto basti. C’è ovviamente chi non si farebbe mai abbindolare da paesaggi simili: sono i tanti internauti dotati di coscienza e senso della storia, seppur breve, della rete. Sono i blogger always on line, eternamente connessi, eternamente mobilitati (l’espressione deriva da un colto saggio di Maurizio Ferraris sull’iPad), magari anche non volendolo (pur di costrizione inavvertita si tratta), che amano meditare sulla magmatica materia e sui suoi protagonisti altolocati. Steve Jobs sedeva nel più alto degli scranni, senza dubbio. Ma Evgeny Morozov, blogger bielorusso inquieto e critico, che ha fatto fortuna in America (scrive su "Wall Strett Journal", "Financial Times", "Washington Post" e altro) appartiene a quel partito che vuole tirar giù delle nubi il sant’uomo, spezzarne il mito, farlo a fette, giungere alla verità. Morozov è noto per il libro "The Net Delusion: The Dark Side of Internet Freedom", divenuto in italiano, per i tipi di Codice, "L’ingenuità della rete". Titolo, in traduzione, già su una sponda interpretativa del contenuto. Ove ingenuità sarebbe consustanziale col lato oscuro, col "dark side"; anzi, figurerebbe come copertura e conseguenza, al contempo, del lavorìo sotterraneo che, al riparo dagli sguardi degli ingenui, i veri padroni del web sono liberi di mettere in atto. E alla fine la libertà della rete sarebbe solo un parziale spiraglio rispetto alle vere possibilità. E’ Morozov a sostenere, ad esempio parlando dell’Iran, che soltanto una frazione delle comunicazioni nei giorni (che paiono così lontani!) delle poteste proveniva dall’interno del paese. La maggior parte avrebbe avuto origine all'estero, attraverso la rapida diffusione dei link che è tipica del medium digitale. Certo, anche così si alimenta l’attenzione del mondo, ma è cosa dubbia che i social network siano stati il motore più influente della protesta. O, perlomeno, l’unico, il più autentico e genuino. Si potrebbe replicare a una simile osservazione, non certo campata in aria, che comunque così la rete funziona: cioè come un gigantesco e istantaneo passa parola. Ove se una zona dell’impero digitale è debole ed oppressa, le zone più in salute possono compensare. Lo scettico Morozov vi risponderà che le rivolte sono solo una parte dell’attività della rete, la più eclatante: la normale amministrazione è ancora peggiore. Si pensi agli hacker, i quali non possono essere hacker tutta la vita. I più bravi, già lo si sa, vengono tranquillamente inglobati, fagocitati dalle multinazionali e dai governi, che impiegano tempo e fondi, molti più di quanti si pensi, alla distrazione ludica di massa dei naviganti. Così contenti di navigare, così ignari del lato oscuro. Critiche generali, queste: Morozov ultimamente pare avere preso sott’occhio un oggetto d’analisi più circoscritto. E’ appunto lo Steve Jobs con cui abbiamo aperto queste note. Il suo nuovo pamphlet s’intitola "Contro Steve Jobs". In pratica sembra derivare un lungo articolo pubblicato su "The New Republic", dove si parla di un libro di Walter Isaacson uscito subito dopo la morte di Jobs. Semplicemente "Steve Jobs". E’ il testo che tutti comprarono (in Italia uscito per Mondadori), anche coloro che in genere non sono troppo attratti dalla lettura. Ma era pur morto il grande Steve….


Dettagli

Issacson, biografo ufficiale, super-autorizzato, riempie il volume di dettagli di ogni genere, che sempre fanno piacere all’ammiratore. Di conseguenze critiche, certo, non se ne trovano poi tante in quelle seicento pagine. Ma Morozov tiene gli occhi ben aperti, e poco si lascia sfuggire. Intervistato brillantemente da Benedetto Vecchi sul "Manifesto", ricorda che Jobs fu abile "nel chiedere ai potenziali clienti di acquistare una macchina che serviva a ben poco, ma che in futuro sarebbe diventata indispensabile. La sua abilità è stata di accreditarsi come un critico verso il potere oppressivo delle big company di quel periodo". L’analisi è realistica e corretta. E’ lo stesso Isaacson a descrivere con cura i preparativi per il lancio del Macintosh. "Una giovane donna dall’aspetto ribelle sfuggiva a una polizia del pensiero orwelliana e lanciava una mazza contro uno schermo sul quale era proiettato un ipnotico discorso del Grande Fratello. L’idea catturava lo Zeitgeist della rivoluzione del personal computer". E via dicendo. Regista dello spot fu Ridely Scott, il mago di Blade Runner. Scegliendo Scott, prosegue Issacson, "Jobs poteva associare se stesso e la Apple alla filosofia cyberpunk del momento. Con quella pubblicità la Apple poteva identificarsi con i ribelli e gli hacker che pensavano in modo diverso e Jobs poteva reclamare il proprio diritto a essere identificato come uno di loro". Da dove, in ultima analisi, nascerebbe la critica asperrima, da dove l’accusa? Magari nel promettere più di ciò che il contenuto vero della macchina recava con sé. "Il popolo – ha precisato Morozov nell’intervista – ha quindi comprato quella macchina più per una ragione ideologica che per la sua effettiva utilità". Si potrebbe del resto replicare che l’abilità nel navigare fra promessa e reale valore tecnologico, in Jobs è stata assolutamente unica, e continua oggi nei punti vendita, totalmente dedicati al marchio. Ma anche oggi si acquista, col prodotto, pure una sorta di "tecnologia morale"? In effetti, ormai è difficile che la coda del mito abbia quella persistenza che pareva detenere solo qualche anno fa. iPad, iPhone e quant’altro (compresi i computer veri e propri, s’intende) sono divenuti totalmente oggetti di massa. Conservano lo status di oggetti del desiderio, ma l’aura sacrale, esteticamente linda, è andata scemando. La parrocchia Apple ha ancora i suoi sacerdoti, ben inteso, compresi i commessi dall’aria convintissima e superba, ma si ha l’impressione, un po’ paradossale, che, divenendo pura tecnologia massificata, anche quella di Apple abbia cominciato a declinare: non certo qualitativamente, s’intende (non siamo più ai tempi delle barricate e del pionierismo e del convincimento "ideologico"), visto che tali prodotti funzionano in modo più che egregio e stabile, senza sorprese o rallentamenti macroscopici; quanto sul piano di un’aura che sembra opacizzarsi, magari dissolversi. Morozov ribadisce che ancora alla Apple usano il solito mantra "think different". Ancora un po’ e saranno gli unici a ripeterlo.